L’attesa è un periodo unico ad ogni figlio per ogni mamma. Fabrizio De André nel suo disco La Buona Novella, ha immortalato l’immagine della gravidanza di Maria in un crescendo di note e di poesia indimenticabili, in cui Maria si erge a Simbolo Nobilissimo di Maternità: “Ave alle donne come te Maria, femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che illumina il viso… nella stagione che stagioni non sente…” Abbiamo chiesto alla Dr.ssa Rita Bartolini Psicopedagogista, docente universitaria e consulente in libera professione, di spiegarci questa attesa che avviene tra le pieghe del corpo, della mente e del sogno ma che nel tempo si trasforma in progetto educativo…

Aspettare un bambino porta una mamma a “sognare” la propria creatura per tutto il tempo dell’attesa; fin dalla prima ecografia ne sentirà il battito del cuore e percepirà sempre più evidenti i suoi movimenti nel pancione. Quanto viene determinato dalla famiglia che accoglie ed educa la nuova creatura e quanto dall’ ambiente sociale?

Ogni esistenza prende avvio da un pensiero che lungo i nove mesi di gestazione produce immagini, attese, progetti e speranze. Il momento della nascita realizza, per sua parte, il passaggio da quel pensare alla realtà dei fatti, collegando cioè l’immaginato con il realizzato, in una forma di accordo talvolta più aderente, talvolta più distante da quel pensiero, da quell’attesa.

La relazione tra pensato e realizzato dipende in parte dai processi educativi endogeni presenti nell’istituto genitoriale, in parte da fattori esogeni caratteristici delle istituzioni sociali e statali  la cui consistenza varia al variare dell’età e dei contesti esistenziali ad essa collegati. Il rapporto tra i due istituti, quello familiare e quello statale,  non è definibile come rapporto stabile in termini di garanzia di presenza ed equilibrio di rapporto. La loro relazione, infatti, ha caratteristiche di intensità e di durata che variano al variare del tempo di crescita del bambino, di invecchiamento dei genitori, di alternanza di governi, di modifica di leggi, senza dimenticare le valenze dei cambiamenti filosofici e culturali.

Il primo istituto, quello familiare, risulta, alla nascita di un bambino, obbligante e quindi dato per assoluto e scontato al punto che rinunciare ad un figlio genera un clima di sospetto e di accusa che si traduce in un forte senso di colpa e di fallimento nel genitore. Per l’istituto statale, invece, non assolvere ai compiti istituzionali, spesso a carattere assistenziale, non sembra compromettere il proprio mandato etico e istituzionale e comunque non genera mai senso di colpa. Infatti alle eventuali insolvenze, transitorietà o parzialità delle risposte si può trovare giustificazione estrinseca appellandosi a contrazioni economiche, cavilli burocratici, slittamento dei tempi, cambi di orientamento politico.

Se nel primo istituto il soggetto coinvolto è la persona genitore ben definita e ben definibile, nel secondo istituto il soggetto coinvolto sono le funzioni: il medico con i protocolli di intervento, l’assistente sociale con le procedure assistenziali, i riabilitatori con le pratiche di allenamento o compensazione, le commissioni di valutazione. Ciò che deve essere fatto è decisamente più importante del chi lo fa.

Forse in questa prima distinzione si palesa con forza e con chiarezza che all’istituto genitoriale si può riconoscere una configurazione di persona, viceversa all’istituto statuale si può riconoscere una configurazione di funzione, ma certo non di persona.

Nascere dunque non avviene in una situazione tra  istituti a identica configurazione, o meglio non lo è o rischia di non esserlo tanto più l’asse del bisogno e della richiesta si approssima all’istituto statale. Si potrebbe dire che tanto meno si ha necessità di stato tanto più si è persona tra persone, tanto più si ha necessità di stato tanto più l’essere persona diventa funzione di funzioni.

E se il sogno della mamma nell’immaginare il proprio bambino si spezza contro la realtà alla nascita, quando le si palesa una verità del bambino che è diversa dal suo desiderio, come un’imperfezione della natura, una malattia? Quando il sogno si trasforma in progetto educativo, quali ripercussioni in seno alla famiglia e alla società? E’ ancora possibile “educare” veramente oggi, in modo congiunto, come tra alleati in un patto educativo, da parte della famiglia e della società?

Dipendere inizialmente dal solo istituto della famiglia presenta apparentemente più garanzie di approssimazione tra l’idea di figlio e la realtà che con la nascita si fa corrispondere. Dipendere da due istituti, famiglia e stato, rende quell’idea molto più complessa da corrispondere. Quasi sempre la corrispondenza tra il pensiero dell’attesa di un figlio e il figlio nato subisce una modificazione, ma non sempre questa modificazione avviene per processo naturale e evolutivo. In alcune situazioni la modificazione è richiesta e nel pensiero originario, in altre è rigettata perché avvertita come intollerabile. Questo è sovente l’esito che si genera in presenza di un bambino con deficit, in stato di disabilità. Il rapporto pensiero – essere sembra, per alcuni, infrangersi e con esso è come se venisse mortificato il senso di progettazione che la nascita di un bambino da subito mette in movimento: le decisioni educative che danno origine agli atti educativi e alle scelte educative.

Il movimento della progettazione è la modalità con la quale l’educazione imbriglia e supera il rischio di essere ridotta ad allevamento per introdursi all’etica della persona. Infatti è nella progettazione che ogni singolo atto quotidiano abbandona il solo senso della ripetizione fine a se stessa, tipica appunto dell’allevamento, in quanto ripetizione circolare degli atti garanti l’atto stesso, per dare a quella ripetizione una costante sensatezza, un costante orientamento teleologico. Ovvero, anche gli atti ripetuti, routinari, tipici ad esempio della primissima infanzia, corrispondono stabilmente al rapporto tra richiesta e risposta, tra persona e persona.

Nel rapporto tra domanda e risposta si edifica progressivamente la comunicazione, cioè il dialogo tra persone. Essa, nel suo stare tra persona e persona, non appartiene né all’una né all’altra, ma transita dall’una all’altra mediante l’insieme dei segni con i quali si dichiara.

Dunque in questo non appartenere ad alcuno la comunicazione è un di più, che è tale proprio perché non è mai uguale a se stesso.

I modi del chiedere e i modi del rispondere non sono mai identici, infatti la comunicazione si muove costantemente pur nell’apparente ripetizione della scena in atto.

Il neonato che piange perché ha fame muove la mamma a dargli il latte: la scena si ripete identica diverse volte al giorno. Ma quella richiesta è sempre diversa da ogni precedente così come quella risposta è diversa dalle precedenti. Tutto l’atto comunicativo è intriso di questa diversità, pertanto assume modi, segni, atti, computati in maniera diversa, in maniera costantemente nuova. Questa molteplicità di scritture per un verso conferma la stabilità del risultato: chiedere cibo e dare cibo; per un altro verso mostra un caleidoscopio di proposte che ottengono lo stesso risultato pur in presenza di diverse modalità di computazione comunicativa. Questo molteplice, pur nello stabile, è il di più che solo la comunicazione umana possiede.

Dunque questa stabilità trova senso non nel ripetersi sempre uguale, ma nel ripetersi (ripetere a se stessa) il perché di quell’atto. Questa domanda non esiste nell’allevamento. Ed è proprio perché quella stabile domanda è presente in ogni atto educativo che la persona che abbiamo davanti non è mai la persona corrispondente all’idea che noi abbiamo di lei. Essa ci sfugge, è oltre, è altrove. Ci costringe ad una costante riprogettazione.

Se dovessimo portare agli estremi confini queste riflessioni, ci accorgeremmo che la storia dell’umanità è la storia della comunicazione. Della comunicazione umana.

L’uomo si è mosso nell’universo con una costante esigenza di interrogare e interrogarsi. È così che ha incontrato l’altro uomo: quello che non gli appartiene, ma senza il quale non potrebbe costruire il senso di umanità. La storia è per eccellenza l’idea concreta di progettualità. In essa ci sono tutte le scritture, ma nessuna può esaurire la persona, perché ad ogni domanda la risposta possibile non è mai quella persona.

Il rispetto per l’altro, per il solo fatto di esistere e la libertà di permettere all’altro di divenire se stesso, presuppongono un concetto di persona come valore inalienabile e sono alla base di ogni progetto educativo. Da qui dobbiamo ripartire con l’educazione?

Ogni domanda, così come ogni risposta, fa spazio alla persona ma non la possiede.

La persona si dà, non è data.

Progettare è dunque la dichiarazione massima di questa astinenza da possesso, perché la progettazione muove la realtà in tutte le scritture comunicative possibili in grado di dirsi.

La figura dell’educatore come la figura del politico dovrebbero farsi carico di questo senso totale di persona e per questo aprirsi costantemente alla progettazione.

Qui, allora, ed ora anche lo stato diventa consapevole della persona, perché dismette le sue funzioni in quanto funzioni e le muove in quanto progetti.

Uno stato che predispone affinché la persona si dia, è uno stato libero tra liberi per liberi.

Ogni sua istituzione interpreta questa libertà al massimo della sua responsabilità perché non interpreta la sua funzione, ma predispone le sue istituzioni affinché siano in grado di lasciar mostrare la persona.

Si tratta allora di andare a riflettere quanto l’idea di progettazione, e quindi di persona, appartenga sia all’istituto genitoriale che all’istituto statale, fermo restando che per parlare di progettazione necessariamente entrambi gli istituti devono riconoscere che la persona si dà e non è data.

All’inizio di un percorso di vita di un bambino con deficit domina il sentimento di fronteggiamento, l’urgenza di arginare ansie e bisogni specifici.

In parte la spinta va nella direzione del fare, in termini di attivismo  che ammortizza lo stress indotto da un evento quasi mai previsto e inizialmente quasi sempre rifiutato. In altra parte va nella direzione di richieste rivolte alle strutture statali nella speranza che le risposte possano essere salvifiche e risolutive, oppure sostitutive, quindi di totale affidamento e rinuncia al compito genitoriale, vuoi per paura di essere incapaci, vuoi per fuga dal ruolo.

In questo primo contatto tra i due istituti, famiglia e stato, rappresentato nei fatti, almeno all’inizio, dall’ospedale da una parte e dai genitori dall’altra, si potrebbe dare avvio realmente ad una progettazione, ovvero ad un percorso educativo condiviso.

Perché ciò si realizzi occorre che i due istituti riconoscano la persona per come si dà e non per come si vuole che si dia.

Per un verso, quello genitoriale, il rischio potrebbe essere quello di porre domande al cui contenuto vuol far corrispondere le risposte all’idea originaria che si aveva prima della nascita di quel bambino. In tal senso nessun progetto è possibile, perché la condizione progettuale è quella di rispettare le modalità con le quali quella persona si mostra e non come noi vogliamo che si mostri. Ma questo, come evidente, dovrebbe valere per ogni nascita.

Per l’altro verso, quello statuale, il rischio potrebbe essere quello di non vedere quel bambino, il mostrarsi di quella persona, ma l’etichetta alla quale la nosografia lo fa appartenere e alla quale lo dobbiamo ricondurre in termini di bisogni legittimati. Anche qui nessun progetto è possibile perché il suo specifico mostrarsi è opacizzato dalla visione scientifica o protocollare che vuole ingabbiare in regole e procedure certe e consuetudinarie ogni possibile futuro.

La progettualità sfugge, per suo movimento, alla ripetizione, alla copia, al fare uguale. Sfugge allo scontato, al certamente è così, a ciò che è previsto.

La progettualità costruisce situazioni, scenografie, proposte, spazi, ma poi aspetta e osserva. Lì, per ogni dove costruito, la persona si dà e il suo mostrarsi è una via costante della progettualità, e ogni via è parte di un progetto che prima non poteva essere.

Prendere coscienza della progettualità è prendere consapevolezza della visione che si ha dell’altro. L’altro è l’altro da me non è il me che voglio. Nella seconda modalità nessun progetto è pensabile e dunque l’altro non si mostra.

La distanza è condizione della progettualità come lo è l’assenza di volontà di potenza per la quale solo ciò che ci corrisponde ha valore. Lasciare che l’altro si mostri ha una implicita condizione: che noi ci sappiamo nascondere.

Ogni posizione politica si annulla se il suo movimento consiste nel volere che la realtà corrisponda al pensiero già deciso unilateralmente. L’assenza di progettualità è l’assenza dell’altro, tutto lo spazio è occupato dal me istituzione.

Ogni posizione educativa si annulla se il suo solo movimento consiste nel regolare il comportamento dell’altro secondo principi già decisi, già valutati. La persona perde totalmente il suo essere persona e diventa l’oggetto che la nostra volontà di potenza desidera modellare. L’assenza di progettualità è l’assenza dell’altro, tutto lo spazio è già occupato dal me educatore.

Viceversa progettare è dunque lasciare che l’altro si dia.

Se la persona che non è una “cosa” modellabile secondo i desiderata dei genitori o secondo norme e procedure medico scientifiche, statali, qual’è lo stile comunicativo che rispetta la libertà di essere del bambino affinché possa crescere esprimendo e realizzando ciò che è e possiede in modo originale e unico?

Tutto ciò cambia l’ordine delle domande e l’ordine delle risposte. Dunque cambia la comunicazione.

Ma questo cambiamento è dato dalla consapevolezza che il senso proprio e ultimo degli interlocutori in scena è quello di far crescere insieme la persona che hanno davanti a titolo certamente diverso ma a scopo altrettanto certamente identico.

Dunque quel bambino è persona fin dalla sua nascita, lo è in maniera integra e intera a prescindere dagli interventi che, anche in forma di urgenza, si potranno o dovranno attuare. Anche quelli sono il suo essere persona, e non nella maniera speciale o eccezionale, ma appunto personale, è il suo darsi ed è il suo dirsi.

Quel bambino si dà e nel suo darsi mette le istituzioni nella condizione di istituirsi non come funzioni, ma come progetti. Ogni progetto d’uomo è simultaneamente progetto d’essere, lo legittima, lo disvela e consente alla storia di essere ciò che deve essere: umanità.