E’ firmato Gian Carlo Blanciardo, già presidente dell’Istat e Professore emerito dell’Università La Bicocca di Milano, l’editoriale di Avvenire di questo martedì 21 ottobre, intitolato “Denatalità e accoglienza – Il valore sociale di ciascun nuovo nato”, a commento del Comunicato stampa dell’Istat che fotografa la situazione italiana.
Particolarmente in Italia, la denatalità è uno dei problemi più gravi del nostro tempo, con le sue tragiche conseguenze sull’economia, il welfare, le relazioni sociali e familiari.
Le cifre
Per rendere meglio la gravità del problema, Blanciardo porta le nuove cifre: 370.000 nati in Italia nel 2024; purtroppo, ormai da 11 anni il record della più bassa natalità nella storia d’Italia. Solo nei primi 7 mesi del 2025, siamo al – 6,2 % di nascite rispetto allo scorso anno e, se il trend rimane costante, a fine 2025 avremo 347.000 nati.
A partire dal 1977, il livello di fecondità degli italiani è sceso sotto il livello del ricambio generazionale. Per fare un rapido confronto tra oggi e la fine degli anni ’70, l’autore fornisce dati ulteriori: allora la media era di 2 figli per donna, la centralità del modello di famiglia era quella tradizionale in cui nove matrimoni su dieci avvenivano in chiesa e solo un nato ogni 25 nasceva in una coppia non coniugata.
I tempi sono cambiati, siamo sotto 1,5 figli per donna e quindi in piena “crisi” demografica; oggi, infatti, la media è di 1,18 figli per donna; due terzi dei matrimoni si svolgono in Comune e più di 4 figli su 10 nascono fuori dal matrimonio. A questo punto, sorge la domanda d’obbligo: è questa la strada vincente per il sistema-Paese? Il Prof. Blanciardo sottolinea come durante gli anni della guerra 1940-1942, in un periodo quanto mai critico, sotto i bombardamenti, nascevano ben 2.625 bambini al giorno. Oggi che l’occupazione è ai massimi livelli e il Pil è in crescita, modesta ma positiva, la media delle nascite è meno della metà, 1.013 nati.
Le cause della denatalità
A questo punto, la sua riflessione è la seguente: se la denatalità non è principalmente un problema materiale e di benessere sociale, è di certo un problema culturale legato al senso della vita, al proprio progetto di vita, al ruolo che ognuno vuole interpretare nel mondo e alla società che si vuole contribuire a costruire.
Nelle numerose interviste presenti su Youtube, egli indica come cause principali della denatalità, quelle che lui chiama “le 4 C”:
1. Costo economico di un figlio, in termini di denaro e di tempo;
2. Cura, cioè azioni per aiutare le famiglie come gli asili e gli asili nido e ad esempio, il doposcuola;
3. Conciliazione casa-lavoro, per esempio le difficoltà che può incontrare una mamma che lavora;
4. Cultura del contesto, l’atteggiamento culturale di tutti noi che non valorizziamo abbastanza chi fa figli.
In merito alla dimensione culturale del problema, sembra necessario creare le condizioni affinché ci sia disponibilità nel fare figli e se ne ricavi anche gratificazione. Se noi dicessimo ai giovani genitori: “Quanto siete bravi!”, questo perché i figli sono una ricchezza della società e sono più importanti di tutto il resto. In famiglia e più in generale nel contesto sociale, occorre stare vicino ai neo genitori e aiutarli in ogni modo perché fare figli è comunque sempre un grande impegno e richiede sacrificio.
La crisi più grave è culturale
La crisi più urgente è la cultura perché è il fattore che conta di più. I disagi ci sono ma i figli devono contare di più. Oggi invece, ci sono giovani che non li vogliono proprio i figli (vedi qui Non essere madre per scelta…) perché si sentono realizzati comunque nel lavoro, negli affetti e vogliono continuare a sentirsi liberi per goderne il più a lungo possibile i vantaggi. Va aggiunto che l’età media al primo figlio oggi è 32,6 anni, con conseguenze sulla probabilità di avere più figli e sull’infertilità.
Qui s’impone una riflessione perché questo pensiero giovane, privo di lungimiranza, appartiene a trentenni ed è molto probabile che invecchiando cambino idea.
La vita infatti si allunga, oltretutto per una donna l’orologio biologico tra i trenta e quarant’anni offre le ultime e maggiormente rischiose possibilità riproduttive. Come capita molto spesso ai cinquantenni rimasti senza figli e ai sessantenni senza nipoti, il rimpianto può essere colmo di amarezza e del senso di solitudine.
In un’altra stagione della vita, quella della pensione e dei bilanci esistenziali, i figli vengono percepiti come un dono inestimabile, una vera ricchezza intima e familiare, una sorta di continuità della propria vita nei figli dei figli, senza la quale rimane solo un vuoto incolmabile e il senso triste della propria fine, in solitudine.
Politiche più efficenti contro la denatalità
C’è anche un’infertilità involontaria provocata dal lavoro precario e dal costo della vita troppo elevato che causa il rinvio della genitorialità. Servono più asili, bonus e congedi parentali ma anche azioni coordinate tra il governo e gli imprenditori, le amministrazioni locali, tutti insieme per salvare l’Italia.
Diversamente un giorno la nazione non potrà più farsi carico del benessere sociale dei propri cittadini, non potrà più, infatti, garantire l’assistenza sanitaria, l’istruzione pubblica e altro ancora; basti pensare alla previdenza sociale: la pensione e i sussidi di disoccupazione.
Per Alessandro Rosina, tra i maggiori esperti sul tema, le risposte della politica sono rimaste limitate a incentivi economici frammentari o richiami culturali, incapaci di affrontare i nodi strutturali.
Gli approcci sono di due tipi:
1) Approccio pronatalista: assume che la bassa fecondità sia frutto di scelte individuali legate a mutamenti culturali. Mira a incentivare direttamente le nascite tramite bonus, assegni, agevolazioni fiscali e talvolta con simbolici richiami alla famiglia tradizionale;
2) Approccio strutturale: agisce sui vincoli che indirettamente limitano la genitorialità, mirando a migliorare le condizioni socio-economiche complessive: lavoro stabile con buoni salari, servizi per l’infanzia, parità di genere, riduzione delle disuguaglianze.
I due approcci devono assolutamente integrarsi, come già avvenuto in Francia, perché contribuiscono a mantenere la fecondità su livelli relativamente più alti. Incentivi economici una tantum e congedi parentali più lunghi producono effetti modesti e transitori, mentre servizi per l’infanzia, come nidi pubblici a tempo pieno, hanno effetti più consistenti e duraturi (Dimai 2023, Guetto et al 2025).
La risposta del governo
Nella legge di bilancio 2026, la quarta manovra del governo Meloni, è previsto un pacchetto di interventi in materia di famiglie e pari opportunità da 1,6 miliardi. Comprende anche una modifica dell’Isee, l’ampliamento dei congedi, parentali e per malattia dei figli, integrazioni al reddito delle madri lavoratrici con due o più figli e un fondo per i centri estivi.
Per il Forum delle Associazioni Familiari, la manovra appare interessante perché ci avvicina ai criteri europei ma non è risolutiva. Positiva la riforma dell’Isee in cui si è intervenuti sull’acquisto della prima casa (soglia di neutralità e parametri), che si avvicina al giusto coefficiente di calcolo del peso economico dei figli. Positivo l’investimento di 60 milioni annui per i centri estivi mentre purtroppo non c’è investimento sull’Assegno Unico Universale.
Per quanto riguarda il fattore culturale, si deve tornare a parlare dei figli non tanto come costo ma come investimento, puntando verso riforme strutturali che considerino le politiche demografiche non come spese ordinarie ma come investimento per il futuro.
Possiamo concludere dicendo che il figlio è un grande valore, deve contare per tutti, in primis per la famiglia che deve rappresentare un nucleo stabile e affidabile nella generazione di figli, garante della loro educazione e preparazione alla vita, e poi per la società tutta che investe sui giovani in termini di formazione culturale e professionale, offrendo in tal modo un lavoro e crea le condizioni sociali ed economiche per garantire la reale possibilità di formarsi una famiglia e di essere “generativa”.
Susanna Primavera