E se il disagio, il dolore psichico e i disturbi psicologici avessero sempre origine nelle esperienze infelici, nei traumi piccoli e grandi dell’infanzia e dell’adolescenza?

Questa era infatti la tesi di Sigmund Freud e lo è, in linea di massima, ancora oggi per la psicologica dinamica o relazionale e la psicoterapia psicoanalitica.

Fin dall’inizio c’è la relazione

Per capire lo sviluppo psichico di un adulto, si deve iniziare dall’esame della sua prima relazione interpersonale: il rapporto madre/bambino, senza escludere le relazioni che hanno circondato quella madre negli anni della cura del suo bimbo.

“Relazioni” dunque: qui sta il problema. Le relazioni infatti influenzano lo psichismo e si traducono in comportamenti e comunicazioni. Compresa la capacità di amare il prossimo.

Abbiamo una mente “relazionale”

I sentimenti, i pensieri, i ricordi, il nostro “Io”, vengono elaborati all’interno del cervello ma non sono qualcosa che lavora solo dentro di noi. La nostra mente infatti è, in certo qual modo, anche fuori di noi, nel mondo che ci circonda e che essa percepisce in modo estremamente complesso attraverso i sensi (Gregory Bateson).

Perché la relazione può diventare un problema? Perché essere in relazione significa assumere una particolare posizione rispetto all’altro: sottomissione, dominazione o parità. Ne conseguono posizioni mentali precise!

Relazionarsi poi ha anche il significato di “comunicare”. Si comunica con le parole ma anche con l’espressione del volto, con il silenzio. È vero perciò che non possiamo mai sottrarci alla comunicazione.

Il potere nella comunicazione

Rispetto alle posizioni assunte nell’interazione, se si esasperano le differenze tra gli interlocutori, l’uno starà “sopra” e l’altro “ sotto” (posizioni one-up e one-down), come può avvenire in un rapporto gerarchico       tra capo e collaboratore.

Se invece ognuno cerca di “minimizzare le differenze” reciproche, ecco che verranno veicolati messaggi di uguaglianza o di complementarietà, come nelle relazioni libere, affettive. Purtroppo, la corsa per il potere nella relazione, è sempre e ovunque in agguato (Paul Watzlawick).

La prima relazione madre/bambino dà l’imprinting

Alla sua nascita il cucciolo d’uomo è dotato di tante potenzialità orientate ciascuna verso la propria finalità. Un apparato digerente adatto a metabolizzare il latte materno e un sistema nervoso avido di stimoli e di relazioni, per potersi specificare ed evolvere in un sistema mentale. (M.L.Vittori, Guida al Paradigma relazionale, ed. F.Angeli)

“… le relazioni oggettuali sono al centro della vita psichica… l’amore, l’odio, le fantasie, le angosce e le difese sono attivi fin dal principio…” (Melanie Klein)

All’inizio mamma e neonato sono abbracciati e con-fusi insieme. Da questa simbiosi piano piano inizia un lungo percorso verso la “nascita psicologica” dell’individuo: dalla simbiosi alla differenziazione. Si tratta di un cambiamento progressivo dell’individualità che giunge da un lato, alla graduale conquista dell’autonomia attraverso percezione -memoria – pensiero e dall’altro, all’allontanamento e allo svincolamento dalla madre.

Tanto è importante infatti la prima fase di tenerissima fusione, quanto è essenziale sapersi distaccare dal senso del possesso del figlio.

Questa avventura madre/bambino è di capitale importanza e lo psicoanalista John Bowlby lo aveva capito benissimo.

Egli era rimasto enormemente colpito dall’anaffettività osservabile sia nei giovani delinquenti che nei bimbi molto piccoli orfani di guerra, privati della figura di riferimento.

La famiglia invischiata, quella disimpegnata e quella normale

Così come nella poesia del Pascoli, la pianta attaccata dal vischio muore, così la particolare atmosfera e il fortissimo sentimento di appartenenza alla propria famiglia d’origine, può limitare e perfino bloccare lo sviluppo della percezione del Sé autonomo. La dipendenza affettiva infatti è tale che l’Io non si percepisce in autonomia ma si sente confuso come in una “massa indifferenziata nell’ Io della famiglia” (Murrey Bowen).

Così come la mente non è esclusivamente individuale, anche l’Io si estende all’Io familiare. Questo “Io familiare” lo possiamo concepire come un’identità emotiva conglomerata che esiste in tutte le famiglie: dal rapporto simbiotico madre e figlio, al rapporto padre con madre e figlio e con gli altri figli.

Le famiglie “invischiate” sono caratterizzate da una stretta connessione dei suoi membri, tanto che ogni tentativo individuale di operare un cambiamento provoca rapide resistenze in tutti gli altri. È un sistema chiuso in se stesso, con un alto grado di interesse reciproco e un alto contagio di reattività emotiva tra i membri. Le energie non si propagano verso l’esterno, non garantendo, in tal modo, il processo evolutivo (Salvador Minuchin).

Le famiglie invischiate tendono a produrre sintomi di tipo psicosomatico.

All’estremo opposto la famiglia “disimpegnata” vede i propri membri come se fossero scollegati gli uni dagli altri, non rispondendo ai reciproci segnali comunicativi. C’è apatia e si cova aggressività (Bruni, Defilippi, 2007).

Le famiglie disimpegnate tendono a produrre atti antisociali.

La famiglia “normale” invece si trova tra questi due opposti. I suoi confini non sono rigidamente impermeabili e c’è scambio reale di informazioni tra i suoi membri. I genitori riescono a dare del tempo a ogni figlio in modo dedicato come ad esempio per le incombenze gestionali della famiglia o per il tempo libero, e rispondono in modo attento ai bisogni di ciascuno.

I membri di questa famiglia sentono di appartenersi ma nello stesso tempo, viene garantita a tutti la “trasformazione” personale in un’ottica di crescita e di sviluppo della personalità, aperti e sensibili al mondo “fuori”, quello sociale verso il quale si entra gradatamente per impegnarsi con alto senso di responsabilità.

Susanna Primavera