Bonding e attaccamento tra madre e figlio

In inglese si chiama “bonding” e riassume lo strettissimo legame tra madre e feto durante la gravidanza. Sulla base di questo legame, si formerà la personalità del figlio. La storia della psicologia ne parla all’inizio come di un legame basato sugli “istinti” (Freud e Anna Freud) per poi concepirlo sempre di più in un’ottica di “relazione” (da Melanie Klein a Bowlby). Questo legame è oggi meglio definito comeattaccamento” : la creatura, trovandosi “dentro” il corpo della madre, subisce l’influenza di ciò che la circonda e ciò che la madre pensa e prova, in vari modi gli arriva. Se la mamma è felice, allora il feto riceve le endorfine e ne beneficia; analogamente se la madre è triste o stanca e provata, sotto stress, il feto riceve adrenalina e si agita, a sua volta. I sentimenti e le emozioni non sono qualcosa di astratto ma sono fatti di ormoni e di composti chimici che attraversano il corpo della madre e del bambino in un legame di strettissima simbiosi. Pertanto, se la madre è ben disposta verso la sua creatura, il bambino lo sentirà e si percepirà amato, se invece mancherà questa positiva disposizione dell’animo e la madre si disporrà al rifiuto, il bambino percepirà un senso di abbandono.

Purtroppo a tutto questo in genere non si pensa e molte donne non sanno, non sono consapevoli delle meraviglie nascoste nella vita prenatale. Nonostante questo, quando il bambino sarà desiderato, le future mamme lo scopriranno presto durante il percorso della gravidanza. Quando andranno a fare l’ ecografia e sentiranno il cuore della creatura battere furiosamente, proveranno una grandissima emozione. I vari specialisti che incontreranno nel corso delle visite di controllo, daranno loro consigli e suggerimenti svelando nel tempo che passa la verità del rapporto madre-figlio durante la gravidanza. Il corso pre-parto sarà un’ occasione importante per socializzare e condividere l’esperienza dell’attesa. Inoltre, lo strumento del “rilassamento”, vero metodo di auto-guarigione da ogni tipo di stress, le porterà a trovare maggiore serenità e quiete interiore. Quando finalmente sarà arrivato il grande momento della nascita, potranno vivere il parto da “protagoniste”, favorendo consapevolmente le contrazioni uterine quasi senza dolore, che potrà infatti essere attenuato, se lo desiderano, dall’analgesia epidurale.

La paura della gravidanza stessa e la paura della paternità

Al profondo legame tra madre e feto forse non pensa nemmeno colei che rimane sorpresa, spiazzata o spaventata nello scoprirsi incinta. Quando timore, apprensione e preoccupazione diventano troppo intensi e si trasformano in ansia e paura, la donna perde lucidità, energia e speranza. La paura è uno stato emotivo che non fa più pensare, soprattutto ragionare in modo articolato e critico, bensì in modo confuso, rigido, fisso. E’ questo un momento delicato in cui la donna ha un grande bisogno di essere aiutata psicologicamente a raccogliere tutte le sue risorse per aprirsi alla nuova vita, che è già fiorita in lei, e a scoprirne tutto il mistero.

La gravidanza stessa, in sé, può far paura e assumere i contorni del “pericolo”. Si chiama tocofobia la grande paura, se non il terrore, della gravidanza e del parto. La donna può addirittura richiedere, come espediente, un taglio cesareo, pur di evitare il parto naturale, senza sapere che l’ intervento chirurgico è molto più invasivo e rischioso. Quando la paura del parto diventa eccessiva e si trasforma in una vera e propria fobia, è più che mai opportuno un aiuto psicologico per superare tale disturbo.

Anche l’uomo può avere paura della paternità poiché è frequente che di fronte al lieto annuncio, egli si tiri indietro. Cosa spinge un uomo a sottrarsi di fatto alle sue responsabilità? Psicologicamente egli può, a dispetto della sua età, non sentirsi ancora pronto per diventare padre, magari per la sgradevole sensazione di sentirsi portare via, in un certo qual modo, la propria stessa vita, diventando improvvisamente “vecchio”. Se invece si tratta di un uomo più giovane, egli potrebbe sentirsi oppresso dalle nuove responsabilità verso la famiglia e/o temere di non riuscire a sostenerla nel tempo, anche per l’incertezza economica e un’occupazione precaria. La paura della paternità potrebbe nascere invece dal timore di veder cambiare il rapporto con la propria partner, non più “tutta per sé”, specialmente se tale rapporto è molto giovane e non si è ancora consolidato nel tempo.

Le pressioni dell’ambiente e la richiesta di abortire

Ci sono poi delle situazioni completamente diverse in cui la donna ha scoperto di essere incinta e vorrebbe tenere il bambino ma subisce delle pressioni molto forti a rinunciarvi da parte di familiari o comunque dell’ambiente che frequenta e la circonda. Talvolta, e non di rado, è il compagno stesso a condizionarla, spingendola attraverso la manipolazione e l’aggressività a rinunciare alla maternità. Quando la spinta ad abortire è troppo forte, la donna può perdere le proprie risorse e smarrirsi e, pur volendo in cuor suo il bambino, non essere capace di resistere alle pressioni e, alla fine, richiedere l’Interruzione Volontaria di Gravidanza. Inoltre, i tempi per un ripensamento in fondo sono brevi, sette giorni in tutto tra il rilascio del certificato e la possibilità di eseguire l’intervento. Per pensarci con calma e approfondire ogni aspetto della propria vicenda personale, familiare, lavorativa e ambientale occorrerebbe più tempo a disposizione con la possibilità di ascoltare più pareri, di avere la possibilità di un confronto con esperti o referenti.

L’ esperienza dei Centri di Aiuto alla Vita è positiva: quando avviene l’incontro con donne in difficoltà per una gravidanza inaspettata, prematura o tardiva, nella maggior parte dei casi, quando una donna viene a sapere come stanno le cose e prende consapevolezza del bonding, quando trova accoglienza, ascolto e comprensione, quando viene a sapere che potrà contare anche su un piccolo aiuto economico e avrà il sostegno psicologico di esperti, allora ella rinuncia all’IVG. In seguito, tornerà spesso a ringraziare per l’aiuto ricevuto e per la gioia di aver tenuto il proprio bambino. Qualche volta si metterà lei stessa a disposizione e diventerà “volontaria”. Nessuna è mai tornata pentita per non avere abortito.

L’aborto chimico e la manipolazione delle coscienze

Talvolta alla donna viene proposto un aborto chimico, cioè l’assunzione del farmaco RU486 , con principio attivo misoprostol, che, con due pillole da ingerire a distanza di due giorni l’una dall’altra, porterà alla fine la donna ad abortire da sola, magari in bagno tra il lavandino e il water, tra forti dolori fisici per gli spasmi espulsivi del feto che ella potrà vedere con i suoi occhi e potrà toccare con le sue mani prima di “buttarlo via”, sprofondata in un dolore fisico e psichico indicibile. Per la crudezza della situazione, la donna può arrivare a provare intima disperazione, un dolore dell’animo fatta di amarezza, tristezza, solitudine e senso di abbandono. La sofferenza intima è profonda e può trasformarsi in ansia e depressione con laceranti sensi di colpa e pensieri di morte ricorrenti. Eppure questo farmaco viene presentato come “facile” e liberatorio. L’aborto chimico non è facile né liberatorio. Dove sta il profondo rispetto per la donna e per la sua dignità quando la si inganna con questo genere di manipolazioni?

Ebbene, proprio questo tipo di aborto chimico è stato richiesto in questi giorni da un gruppo di associazioni e personaggi noti, sempre in nome della “libertà” delle donne, dell’autodeterminazione. L’aborto, dicono, deve essere “garantito” come un diritto anche in tempi di Pandemia. La richiesta al governo è infatti di consentire l’interruzione di gravidanza alle donne incinte e di aprire all’aborto “fai-da-te” con l’assunzione della pillola RU486, a domicilio entro la nona settimana anziché alla settima, come previsto dalla legge. In sostanza si chiede con ancor più forza piena licenza di uccidere nel più ampio campo di battaglia universale dove già si svolge una guerra terribile ad un virus, che ha fatto finora 3.207.248 contagi e 230.309 morti. Si insiste cioè sulla libertà di procurare la morte al più indifeso degli esseri umani in un momento veramente poco opportuno, con una cecità assurda rispetto alla gravità della situazione. Tutti i morti che ci sono stati finora non bastano ancora per far nascere nel cuore di costoro un pensiero di vita, di rinascita e di speranza. La morte nel loro cuore pare richiamare invece ancora più morte. Stride la contraddizione di voler eliminare i feti non desiderati tramite l’aborto chimico senza dover impegnare gli ospedali, troppo concentrati sul virus nel tentativo di “salvare” vite umane… Ecco nell’immagine che segue un feto di nove settimane.

Libertà e autodeterminazione

La libertà della persona è basata sul presupposto della “scelta”, altrimenti non c’è libertà ma sudditanza.

E’ “scelta” veramente libera e consapevole l’opzione del ricorso all’aborto?

Quanto sono veramente informate le donne in merito al bonding e alla verità scientifica della vita intrauterina?

Quanto sono consapevoli e rispettose del dono maestoso di generare la vita?

Quanto sono veramente libere di scegliere per la vita quando le loro coscienze sono di fatto manipolate dalla società?

Che ne è oggi con l’aborto chimico, se non un ritorno alla violenza verso le donne nella forma subdola ed ingannevole di una pillola, un altro farmaco in più?

Ma dopo questa Pandemia, non ci sarà “futuro” se non ritroveremo la nostra più profonda umanità, se non sostituiremo i pensieri di morte con sentimenti di non violenza e di pace. Non ci sarà speranza di un futuro migliore se non torneremo ad amare la vita, a partire dalla difesa dei bambini, fin dal concepimento.