Ricordo benissimo quel mattino di febbraio di 10 anni fa, mentre ero in auto e ascoltavo il giornale radio avevo appreso che Eluana Englaro, la donna in stato vegetativo di cui tanto si era parlato nei giornali di quel periodo, era morta la sera precedente, il 9 febbraio 2009 dopo tre giorni di agonia in cui le era stata sottratta ogni nutrizione. Come moltissimi italiani, avevo seguito tutta la vicenda di Eluana e mi ero affezionata a lei in certo qual modo, e appresa la notizia, ebbi una stretta al cuore. Eluana era stata una ragazza bella e sfortunata che una sera d’inverno del 1992, a soli 21 anni, aveva avuto un brutto incidente d’auto sbandando sulla strada ghiacciata e andando a finire contro un palo. Due anni dopo dal coma era passata allo stato vegetativo.

Il padre di Eluana, Beppino Englaro

Il padre Beppino Englaro era convinto che Eluana fosse morta come “persona” nel momento stesso dell’incidente perché non rispondeva più, non era più lei, non c’era più. Per questa ragione, considerandola come già morta, egli riteneva ingiusto tenerla ancora in vita; era ormai diventata solo un corpo, un vegetale: una vita come quella di Eluana era vita priva di dignità, perciò proprio per il rispetto a lei dovuto, non avrebbe dovuto continuare a vivere in quello stato; la sua condizione dunque non poteva essere considerata vita vera ed era perciò un’assurdità mantenerla in vita. Inoltre egli affermava che da giovane, quando Eluana sapeva ciò che voleva, mai avrebbe accettato di vivere in quella condizione… Ci fu una lunga battaglia legale (vedi a pag.7/20) a suon di sentenze e alla fine il padre ebbe il permesso dei giudici di interromperle “i presìdi vitali” e, di conseguenza, Eluana morì per arresto cardiaco dovuto alla sete, a 39 anni. Il fatto in sé era per me e molti altri, sconvolgente a dir poco, perché Eluana non era una malata terminale cui abbreviare le sofferenze,  nemmeno vi era stato su di lei un accanimento terapeutico, non era attaccata ad un respiratore e respirava autonomamente; aveva solo un sondino per la nutrizione e, infine, il suo corpo era sano. Era quindi, a tutti gli effetti, una persona disabile in stato vegetativo. E’ questo spesso il destino di chi è stato sottratto alla morte magari per un ictus o per un trauma. Per la prima volta nell’Italia repubblicana era stata tolta la vita ad una persona disabile e la strada verso l’eutanasia era ormai segnata, passando dalle DAT, Disposizioni Anticipate di Trattamento, all‘ordinanza 207 della Consulta del 2018, in cui è stato richiesto alle Camere la possibilità di morire su richiesta, il suicidio assistito.

Lucido dentro un corpo immobile: Lo scafandro e la farfalla

La storia di Eluana mi fa venire in mente il drammatico film “Lo scafandro e la farfalla” del regista Julian Schnabel tratto dal libro autobiografico del giornalista francese Jean-Dominique Bauby, che a 43 anni, mentre era alla guida della sua auto venne colto da un ictus ed entrò in coma per 20 giorni. Al risveglio si ritrovò con la sindrome locked-in o sindrome del chiavistello, cioè come chiuso dentro, imprigionato, nel proprio corpo come se si fosse trovato in uno scafandro; lucido mentalmente in un corpo immobile che non era più in grado di comunicare, camminare, nutrirsi e respirare da solo. Un corpo immobile, tranne che per un occhio, con cui poteva usare le palpebre. Così, con questo unico strumento di comunicazione, riuscì a dettare il testo del libro che ci racconta ancora oggi la sua storia. Questa sindrome è comunque diversa dallo stato vegetativo in cui si trovava Eluana perché nella sindrome locked-in la coscienza è inalterata, come anche la percezione del proprio corpo nello spazio e la sensazione tattile e del dolore. Tuttavia, una testimonianza ci lascia profondamente stupiti sullo stato di coscienza di Eluana che per la scienza non avrebbe dovuto esserci: “Andammo a trovarla di nuovo a poche ore dal Natale 2008, senza sapere che sarebbe stata l’ultima visita, sempre con Beppino Englaro che ce lo consentiva. Quel giorno successe un fatto che impressionò profondamente noi, ma normale per suor Rosangela (abituata alle reazioni di Eluana) e ancor più i neuroscienziati (nelle persone in stato di minima coscienza sono eventi consueti): con una battuta di spirito chi era nella stanza scoppiò a ridere, e quel suono così strano, non sentito forse per anni, accese sul viso della giovane donna un sorriso aperto, evidente, scioccante. Eluana in qualche modo c’era, reagiva, ansimava di spavento se sentiva discutere della sua prossima morte… (Ecco la testimonianza di suor Annalisa Nava che l’aveva accudita per anni) “Eluana ha capito tutto. Era agitata, le ho detto di stare calma, che l’avrebbero portata in un’altra clinica più bella e più comoda. Ho letto sui giornali che è morta 17 anni fa: no, Eluana è viva, anche esteticamente ha un aspetto florido, sano. Mi piacerebbe che chi scrive certi articoli potesse vederla da vicino per stabilire chi ha ragione. Dire ad una persona “tu per me sei morto” significa radiarlo dalla sfera umana… E’ la frase che ci fa tornare indietro in umanità, regredire a tempi molto bui.” Ma una volta trasferita alla “Quiete” Eluana è tra mani estranee, non ci sono più quelle di suor Rosangela sempre pronte a fare la cosa giusta. Così si agita, tossisce fino a strozzarsi, rischia persino di morire, cerca aria, solleva le spalle ma non ci riesce. La salvano. Poi il protocollo ha inizio, insieme alla sedazione per attutire le sofferenze. Medici e infermieri tengono un diario aggiornato ogni mezz’ora, registrando i peggioramenti, i gemiti, i tentativi di dare sollievo alla pelle che si spacca quando il sondino non porta più l’acqua ed Eluana si secca come una mela al sole…”

Dignità della persona sempre

Sono passati dunque 10 anni; cosa sappiamo oggi degli stati vegetativi? Cosa sappiamo del loro livello di coscienza? In seguito alla vicenda di Eluana Englaro, all’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, nacque il Centro di ricerca sul coma, cioè un centro di “Scienza della coscienza” che studia lo stato di coscienza in modo scientifico e non più soltanto filosofico, come avveniva fino a quel momento. Per meglio capire la questione è bene fare un distinguo tra “coma”, “stato vegetativo” e “stato di minima coscienza”. Nel coma non vi è alcuna attività cerebrale e nessun livello di coscienza ma questa non è morte cerebrale in quanto la persona è viva, respira regolarmente solo che non reagisce, non usa il pensiero e non reagisce agli stimoli esterni. Tuttavia conserva le sue capacità cognitive e una minima attività cerebrale, anche se ha perso il normale ritmo di sonno-veglia. Nello stato vegetativo (SV) il movimento degli occhi, spontaneo o generato da stimoli dolorosi, indica una parvenza di vigilanza. Nello stato di minima coscienza (SMC) gli occhi si aprono e possono seguire uno stimolo esterno, gli arti possono muoversi ma non c’è consapevolezza di sé e degli altri né capacità di esprimersi. Tuttavia, le reazioni improvvise ci possono essere, come avvenuto recentemente a Lucca.

Di certo rimane che le persone affette da una disabiltà, qualunque essa sia, sono innanzitutto “persone” e pertanto vanno tutelate in ogni modo, vanno protette, affiancate, curate se è possibile farlo, ma ancor di più amate.  La scienza ha fatto grandi progressi anche grazie allo sviluppo delle neuroscienze e della riabilitazione ma c’è ancora tanto da scoprire sul funzionamento del corpo umano e delle sue cellule. Gli hospice lavorano in genere molto bene come a Varese ma c’è ancora molto da fare nella creazione di “reti” che garantiscano la continuità dell’assistenza degli IRCCS, Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.

Dissolta la sacralità della vita, l’uomo perde la speranza

Dal caso Englaro, in questi ultimi 10 anni, lo scenario antropologico è andato via via sempre più peggiorando con una mentalità contraria alla vita, in quanto la vita viene accettata solo a certe condizioni: aborto come diritto, diagnosi pre-natali per eliminare i bambini malformati, down, eutanasia, volontà di morire anticipando il tempo della propria fine, rifiuto del limite, dell’infermità e della vecchiaia, libero esercizio del suicidio e assistenza al suicidio stesso

A questo punto vien da chiedersi: ma l’essere umano non è quella fusione particolarissima e unica di corpo, mente e spirito? E se la mente se ne va o rimane lesa, il corpo, sia pure sovente anch’esso ferito nella sua funzionalità, non è sempre lo stesso, quello che appartiene alla persona? La dignità della persona umana non rimane forse sempre la medesima se si perde la capacità di pensare? Un corpo, sia pure ridotto da tempo alle pure funzioni fisiologiche, altera forse il proprio valore intrinseco di corpo umano? E la vita non è forse sempre tale anche nella malattia, nella sofferenza e nella vecchiaia e le sue patologie? Il corpo non  è forse sempre “sacro”, non meno della mente e dello spirito? E Gesù non ci ha forse parlato della sua “carne” e del suo “sangue”, come dono di se stesso per la nostra redenzione? Davvero nella sofferenza non cogliamo alcun significato? Eppure spesso è proprio grazie alla sofferenza che la nostra comprensione della realtà e di noi stessi diventa più profonda.

Lo psicanalista Massimo Recalcati così si esprime sull’essere umano come corpo, spirito e anima: “Non esiste anima senza incarnazione. Non esiste spirito che non sia corpo. Il cristianesimo rompe la tradizione gnostico-spiritualistica: il corpo non è un involucro dell’anima, ma è carne dell’anima, incarnazione dell’anima. Cristo è un uomo. Ma questa umanità non è solo un grumo di spinte pulsionali, ma porta con sé anche il fuoco del desiderio, la sua trascendenza. E’ la fede nel desiderio che può spostare le montagne. Una vita non si giudica dalla sua razza, dai suoi attributi ontologici, dalla sua essenza, ma solo da quello che essa fa del proprio desiderio, del proprio talento. E’ questo il punto di massima convergenza tra psicoanalisi e cristianesimo: un albero si giudica sempre e solo dai suoi frutti.”

Ed è per questa ragione che anche noi ricchi di fede e di speranza, insieme ai protagonisti del romanzo La strada di  Cormac Mac Carthy possiamo ancora dire:

«Ce la caveremo, vero, papà?
Sí. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sí. Perché noi portiamo il fuoco».