Da che parte stiamo? A quale visione antropologica aderiamo? Siamo dalla parte di chi vede l’essere umano un valore in sé, indipendentemente dal tempo di gestazione, dall’età, dalla condizione di salute fisica o mentale, dalla cultura, dal colore della pelle, dal permesso di soggiorno… cioè indipendentemente da tutto, e perciò dotato di un valore “intrinseco” e inalienabile oppure siamo dalla parte di chi vede l’essere umano come un valore “relativo”, condizionato da altro: tempo di gestazione, età, salute, cultura, colore della pelle, permesso di soggiorno?

Ne consegue che i diritti umani possono valere in modo assoluto per tutti oppure valere in modo relativo, in quanto legati ad opzioni individuali, al soggettivismo,  come ben pone la questione Marina Casini Bandini nel suo articolo su Avvenire di martedì (L’aborto è e resta ferita epocale e planetaria – Avvenire 12.8.2018): “ Tutto l’edificio dei diritti umani non sta in piedi se non si riconosce dignità all’embrione, la prima pietra di un nuovo umanesimo che pone in giusta luce anche la dignità di ogni altra categoria di esseri umani: i migranti, le vittime della tratta, i poveri, gli schiavi di nuova generazione. Dalla dignità dei più poveri tra gli esseri umani (così Madre Teresa chiamava i bimbi non nati) deriva la luce e la forza per una solidarietà che restituisce verità ai diritti dell’uomo.”

Come non cogliere la contraddizione di chi (Unione Europea, ONU, Amnesty International) si schiera sia a favore dell’abolizione della pena di morte sia a favore dell’aborto? Gruppi di potere che influenzano intere nazioni, incidendo nella loro cultura.

Ma la sensibilità sta cambiando come un vento che spinge inevitabilmente a favore della vita. Se aumenta la sensibilità generale nei confronti dei più deboli , il cuore si spoglia di tutto e recupera  un profondo senso di umanità. Delicata e strategica in tal senso è la questione della pena di morte, oggi ancora diffusa in Africa, Medio Oriente e Stati  Uniti. Ciononostante, il suo uso è in costante decremento con – 4% rispetto al 2016

Nel 1998 San Giovanni Paolo II espresse la nuova “sensibilità” della Chiesa nel suo messaggio di Natale in cui auspicava la crescita di consenso nel bandire la Pena di morte, ritenuta crudele ed inutile; egli vedeva infatti nel contrasto alla Pena di morte, la misura più significativa in favore dell’uomo e un mese dopo, a gennaio del 1999, negli Stati Uniti disse: “La dignità della vita umana non deve mai essere negata, nemmeno a chi ha fatto del grande male. La società moderna possiede gli strumenti per proteggersi, senza negare ai criminali la possibilità di ravvedersi.”

Anche Benedetto XVI nel 2002, nel Compendio del Catechismo, ebbe parole chiarissime e inequivocabili in merito: “ la pena inflitta deve essere proporzionata alla gravità del delitto. Oggi, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere il crimine rendendo inoffensivo il colpevole, i casi di assoluta necessità di pena di morte sono ormai rari, se non addirittura praticamente inesistenti. Quando i mezzi incruenti sono sufficienti, l’autorità si limiterà a quei mezzi, perché questi corrispondono meglio alle condizioni concrete del bene comune, sono più conformi alla dignità della persona e non tolgono definitivamente al colpevole la possibilità di redimersi.”

Oggi Papa Francesco ribadisce l’indisponibilità della vita umana anche quella del colpevole dei più efferati delitti e pericolosi crimini: “La pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona.” Si legge nella nuova redazione del n. 2267 del catechismo della Chiesa Cattolica, approvata l’11 maggio scorso. Fin dal Comunicato Stampa, il messaggio della Santa Sede è molto chiaro:  “Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono satti messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi.”

E’ questo aspetto della “possibilità di ravvedersi”, che riguarda una dimensione molto personale di interiorizzazione e che porta ad interpretare umanamente e socialmente in modo nuovo il concetto stesso di pena nella sua accezione filosofica, non più soltanto come la giusta punizione per il male compiuto ma anche come un percorso di crescita interiore, di maturazione e di consapevolezza sulla gravità dei propri comportamenti illeciti. La moderna società civile da tempo spinge in tal senso, affinché la detenzione non sia fine a se stessa ma diventi un percorso studiato ed organizzato su base collaborativa e tenda a sfociare in un vero pentimento e in un desiderio di rinascita, in cui il “bene” diventa il criterio base su cui costruire un nuovo modo di essere, di pensare e di agire.

Già Aldo Moro nel 1976 all’Università la Sapienza, spiegava  come “ la pena dell’ergastolo, che priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte.”  Umberto Veronesi, in un’intervista a Panorama del 2012, dal titolo “No all’ergastolo, lo dice la scienza” invitò a riflettere sulla plasticità del cervello e sull’influenza dell’ambiente sulla personalità: “Il nostro sistema di neuroni non è immutabile ma si rinnova perché il cervello è dotato di cellule staminali in grado di generare nuove cellule. Quindi la persona che abbiamo chiuso in carcere non è la stessa vent’anni più tardi. Per ogni uomo esiste la possibilità di cambiare ed evolversi.”

Numerose sono su questo tema del carcere le produzioni cinematografiche che hanno saputo lasciare il segno nel cuore e nella mente di chi ha potuto vedere e ascoltare la voce dei condannati all’ergastolo ostativo . Nel film “Mai dire mai” di Andrea Salvatore, girato all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, dieci detenuti  raccontano la propria storia, le riflessioni e le speranze. La loro testimonianza commuove e scioglie i nostri cuori, sempre un po’ intolleranti e giudicanti. Grazie ai percorsi di redenzione, il carcere si trasforma in un laboratorio di consapevolezza e di speranza. Diversamente, come a Poggioreale, un carcere sovraffollato che non potrebbe contenere più di 1350 detenuti mentre ne ha circa 2800, di fatto una specie di inferno e un luogo che, non essendoci un percorso riabilitativo, finisce per lasciare i detenuti  in ozio per 20 ore al giorno e dove inevitabilmente si scatenano risse, promiscuità, infezioni, malattie, suicidi…(vedi video)

Concludo con le parole di Mario Benjamin Murphy, pronunciate in Virginia il 19 giugno 1997, pochi istanti prima della sua esecuzione; era implicato nell’omicidio di un ufficiale statunitense, venne quindi catturato a 19 anni e condannato a morte per iniezione letale a soli 25 anni : “Oggi è un buon giorno per morire. Vi perdono tutti. Spero che Dio faccia lo stesso.”